La pace fa paura ai vigliacchi

La pace fa paura ai vigliacchi di Luciano Di Gregorio C’è una verità che nessuno osa pronunciare: la pace fa paura. Fa paura ai governi, ai generali, ai giornalisti embedded, ai venditori di armi e agli opinionisti che si sono scoperti strateghe militari con l’abbonamento al Corriere. La pace fa paura perché è una smentita. E le smentite, si sa, costano carriere, reputazioni e contratti da consulenza. Questa guerra non doveva finire. Doveva diventare struttura. Rumore di fondo. Una colonna sonora di droni e sanzioni per accompagnare le giornate dei cittadini occidentali, mentre nel backstage si costruiva un nuovo ordine mondiale, con la NATO come regista e l’Europa come controfigura. E invece, come in ogni tragedia greca, arriva il personaggio imprevedibile: Donald Trump. Uno che non ha bisogno di risultare coerente, ma solo inevitabile. Entra in scena, dice che la guerra è persa, che l’Ucraina è stata usata, che i valori occidentali sono etichette con il prezzo sopra. E il cast istituzionale va in panico, come attori incapaci davanti a un improvvisatore geniale. Il grande inganno Abbiamo vissuto tre anni dentro una favola bellica scritta da sceneggiatori falliti: Putin era Hitler, Zelensky Churchill, la NATO la Croce Rossa. Il risultato? Mezzo milione di morti, un paese devastato, un’Europa più povera, e una Russia ancora lì. Ci avevano detto: “Putin è finito”. “La Russia fallirà”. “Le sanzioni funzionano”. “È una guerra per la democrazia”. “Non daremo armi offensive”. “Non useremo bombe a grappolo”. “Non manderemo truppe”. Ogni frase è stata smentita dai fatti. E ogni smentita è stata coperta da una nuova bugia. Chi ha cercato di dire la verità è stato etichettato: putiniano, pacifinto, traditore, disertore morale. Perché in un’epoca di guerra totale, anche il pensiero è un campo minato. Ma ora che la narrazione si sfalda, che resta? Restano i rottami morali di chi ha tifato per il conflitto, con la foga dei miserabili che scambiano la guerra per riscatto. Restano i bilanci: umani, economici, politici. E restano i cittadini, da soli, con le tasche vuote e le scorte di aspirine nelle “borse della resilienza”. L’Europa senza dignità L’Unione Europea, in questa storia, si è giocata tutto: autorità, credibilità, senso. Ha trasformato la parola “pace” in un imbarazzo diplomatico. Ha delegato agli americani ogni decisione strategica, e ora piagnucola perché Trump tratta con Putin. Ma cosa pretendevamo? Che i due imperi si scannassero per farci contenti? Che gli ucraini morissero in eterno per la nostra coerenza narrativa? L’unica coerenza europea è stata l’obbedienza. Anche al ridicolo. Siamo stati capaci di approvare un riarmo da 800 miliardi chiamandolo “prontezza 2030”. Cioè: ci armiamo oggi per essere pronti tra cinque anni. Come dire a un ladro: entra pure, fra un lustro ti arrestiamo. I nuovi Tafazzi I veri responsabili del disastro non sono i falchi americani, né i russi, né i trumpiani. Sono i tafazzi nostrani: quella classe politica, mediatica e intellettuale che ha spinto per la guerra senza sapere perché, che ha fatto il tifo per le armi con lo stesso entusiasmo con cui prima si entusiasmava per i vaccini, i selfie e gli NFT. Sono quelli che ti dicevano: “La pace si fa solo dopo la vittoria.” Come se nella storia le guerre fossero finite tutte con un trofeo e una stretta di mano. La pace si fa quando si può, non quando è comoda. E ora, davanti all’ipotesi di un negoziato vero, questi signori impazziscono. Perché se la pace arriva, la loro narrativa crolla. E con essa, la loro carriera. Per questo si inventano nuove minacce: Putin vuole Lisbona, la NATO è scomparsa, la Germania è un pericolo, la Russia è immortale, ma anche allo stremo. Non hanno più logica. Hanno solo paura. La guerra è finita. Il teatrino no. Questa guerra è finita. Non ufficialmente, ma nella sostanza. È finita perché il suo scopo era altro: ridisegnare gli equilibri globali, drenare risorse europee, testare la lealtà atlantica. L’Ucraina è stata il pretesto. Il campo da gioco. Non il fine. La pace ora si può fare. Forse non sarà “giusta”, forse non sarà “pura”. Ma sarà reale. E ogni giorno che passa, ogni morto in più, è colpa di chi non la vuole. E chi non la vuole, oggi, è il vero nemico.

Trump, Musk & Co. S.p.A.: privatizzare l’America, un pezzo alla volta

Trump, Musk & Co. S.p.A.: privatizzare l’America, un pezzo alla volta di Luciano Di Gregorio C’è un progetto silenzioso, ma non troppo, che sta avanzando in America sotto gli occhi di tutti, tra tweet deliranti, jet privati e partite a Risiko con la democrazia. È il progetto di una nuova oligarchia tecno-populista che ha il volto di Donald Trump, la retorica di Elon Musk e il portafogli di chi non ha mai preso un autobus in vita sua. Il piano è semplice e brutale: svuotare lo Stato, tagliare le tasse ai miliardari, spacciare ogni misura regressiva come “libertà” e chiamare “patriottismo” la svendita del bene pubblico. Trump lo ha fatto una volta, ora vuole farlo ancora, con una determinazione da vendicatore sociale al contrario: uno che non combatte per i poveri, ma contro di loro. “America First”, versione liquidazione Nel mirino ci sono i servizi essenziali, i diritti civili e le conquiste del Novecento: chiudere gli uffici della previdenza sociale, licenziare lavoratori pubblici, sventrare Medicaid, eliminare protezioni per i consumatori. Un piano che non risana nulla, ma spolpa. È il vecchio sogno della destra più radicale: rendere il governo così piccolo “da poterlo annegare nella vasca da bagno”, come diceva Grover Norquist, ideologo del neoliberismo estremo. A guidare questa crociata ci sono uomini che odiano lo Stato, finché non c’è da ricevere un sussidio, una deregulation o un taglio fiscale. E che nel frattempo pretendono di essere anche paladini del popolo. Un popolo, però, sempre più sfrattato dai suoi stessi diritti. Il paradosso del miliardario ribelle Trump e Musk sono il nuovo volto di un populismo tossico: miliardari che si fingono outsider, leader che cavalcano il malcontento creato dalle stesse élite economiche cui appartengono. Ma con una differenza sostanziale rispetto ai plutocrati del passato: questi non si accontentano di comprare i politici – vogliono essere i politici. Vogliono scrivere le regole mentre le riscrivono a loro vantaggio. Elon Musk gioca a fare il rivoluzionario su X (ex Twitter), mentre taglia posti di lavoro, attacca i sindacati e flirta con le peggiori destre del pianeta. Trump, intanto, promette di prorogare i famigerati tagli fiscali della sua prima presidenza – quelli che hanno arricchito Wall Street e lasciato a secco Main Street. Una nazione in saldo Quello che sta accadendo è la trasformazione dell’America in un club privato per ultraricchi, dove la cittadinanza è un abbonamento premium e il resto è rumore di fondo. Se protesti, sei woke. Se reclami giustizia, sei comunista. Se ti ammali e non puoi pagare, è colpa tua. E non è un caso che alla marcia contro questo disegno abbiano aderito oltre 150 gruppi, da Greenpeace alla Human Rights Campaign, dal SEIU ai movimenti per la Palestina o l’Ucraina. Perché il filo rosso è uno solo: la democrazia non può essere un privilegio. O la difendiamo adesso, o resteranno solo le briciole. E nemmeno quelle sono garantite. Il punto di non ritorno Questa non è più politica: è una guerra di logoramento contro l’idea stessa di bene comune. E chi pensa che “tanto è l’America, si riprenderanno”, dovrebbe ricordare che anche Roma cadeva mentre i senatori brindavano. La democrazia non muore sempre con un colpo di Stato. A volte si spegne a colpi di decreto, tweet e spot elettorali. Trump, Musk e i loro compari non vogliono solo vincere. Vogliono riscrivere le regole del gioco. E poi mangiarsi il tabellone.  

Trump, il Risiko dei populisti e l’Europa dei sonnambuli

Trump, il Risiko dei populisti e l’Europa dei sonnambuli di Luciano Di Gregorio C’è un errore che la destra europea ha fatto, e continua a fare, con ostinazione quasi commovente: pensare che Donald Trump sia “uno dei nostri”. Che sia semplicemente un altro populista chiassoso, uno che urla promesse sapendo di non doverle mantenere. Un professionista dell’ambiguità, come tanti altri. Ma Trump non è ambiguo. È qualcosa di peggio: è coerente. E questo, per certi conservatori europei, è stato un brutto risveglio. Quelli che nella vita non sono riusciti a far funzionare un’azienda spesso si riciclano in politica. Trump è il prototipo. Fallimenti a ripetizione, bancarotte ben documentate, reality show come copertura mediatica, e poi la Casa Bianca come piano B. Ma il punto non è lui. Il punto è che lo votano. Petrolini lo diceva meglio di tutti: “Io non ce l’ho con te, ce l’ho con quello vicino a te che è un diputato.” Il problema non è il buffone, ma chi ride. Trump non gioca a scacchi. Gioca a Risiko. Con una visione del mondo in cui ognuno torna nel proprio recinto: gli americani mangiano americano, i cinesi cinese, gli europei… vabbè, si arrangino. Lui la chiama “America First”. In realtà è “America Alone”, ed è l’unica strategia che potrebbe davvero impoverire tutti. Un disegno infantile, che però ha bisogno di essere attuato. E magari ci riesce pure. Perché la verità è questa: Trump non è negoziale. Fa finta di esserlo, poi ti presenta il conto. Prima minaccia, poi tratta. Ma solo se hai qualcosa da offrirgli. Se no, sei fuori dal tavolo. Europa inclusa. E noi, europei, continuiamo a balbettare, a oscillare, a non decidere. Ogni volta che lui alza la voce, noi ci mettiamo a parlare di “dialogo”. Una parola nobile, certo. Ma anche una parola che, nella bocca di chi non sa opporsi, suona come una resa preventiva. La Cina osserva e ringrazia. Se gli americani diventano occlusi, dice, allora venite da noi. E se l’alternativa alla democrazia americana è l’abbraccio velenoso dell’autoritarismo cinese, allora l’Europa dovrebbe svegliarsi. Perché il tempo dell’illusione è finito. Non possiamo più permetterci di vivere di promesse, di dichiarazioni, di “valori” scritti nei trattati e mai difesi con i denti. Trump ha una potenza che non viene dal pensiero, ma dal fatto che può fare ciò che vuole. E questo è devastante. Ma ancora più devastante è la codardia di chi dovrebbe fermarlo e invece spera che “passi la nottata”. L’Europa non deve dialogare con Trump. Deve dirgli no. E deve farlo prima che sia troppo tardi. Perché la storia non aspetta. E i sonnambuli finiscono sempre contro il muro.

Il mito suicida dell’autarchia

Dazi: la farsa protezionista che ci sta dissanguando In un mondo dove l’apparenza conta più della sostanza, i dazi sono diventati il nuovo giocattolo dei populisti economici: venduti come salvezza nazionale, sono in realtà la pistola fumante puntata contro i consumatori stessi. Sventolati come scudo contro il “nemico straniero”, si rivelano invece un boomerang che colpisce dritto al portafoglio delle famiglie, prima ancora che le imprese. Promesse vuote e propaganda d’accatto Dietro slogan come “riportiamo il lavoro a casa” si cela una verità scomoda: i dazi non proteggono nessuno, se non l’ego di politici che giocano a fare gli strateghi globali. A ogni proclama sul rilancio dell’economia interna corrisponde un dato impietoso: prezzi che salgono, inflazione che galoppa e salari che arrancano. Altro che rinascita industriale — siamo nel mezzo di una lenta eutanasia commerciale. Il mito suicida dell’autarchia Il protezionismo moderno è la versione economica del coprifuoco: chiude, isola, soffoca. In nome di una presunta sovranità commerciale, si erigono muri che non fermano nessuno, se non le merci che servono davvero. Le grandi potenze si barricano in se stesse, dimenticando una regola antica quanto ovvia: se smettiamo di scambiarci beni, inizieremo presto a scambiarci minacce. Le élite si arricchiscono, il popolo paga Chi guadagna dai dazi? Non certo il cittadino medio. Le grandi aziende sanno come aggirare il sistema, delocalizzare quando serve e scaricare i costi su chi non ha voce. Chi ci rimette? Il piccolo imprenditore, lo studente, la famiglia con reddito fisso. E intanto ci raccontano che “è per il nostro bene”. Una bugia che ha il sapore acre del cinismo. Accordi? Solo quando conviene a loro I trattati commerciali, un tempo fondamento di cooperazione, sono ora ridotti a moneta di scambio per ottenere vantaggi tattici. Si parla di “negoziazione”, ma è solo teatro: maschere di cortesia per nascondere ricatti economici. Altro che diplomazia: è bullismo di stato. Conclusione: la fine della recita Abbiamo bisogno di chiamare le cose col loro nome: i dazi non sono una strategia, sono un fallimento annunciato. Non costruiscono il futuro, lo ostacolano. Non difendono l’economia, la sabotano. Continuare su questa strada significa prepararsi a una guerra commerciale in piena regola, dove l’unico vincitore è il caos — e a pagare il conto saremo, come sempre, noi.